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![]() Sito aggiornato il 11.10.2025 |
Parrocchie di Isola della Scala e Pellegrina
XXVIII Domenica del Tempo Ordinario
Dio moltiplica continuamente le sue azioni
di misericordia, ma non sempre gli uomini
sanno riconoscere la sua opera e dargli
gloria. Un solo lebbroso su dieci, nel
Vangelo, appena purificato torna da Gesù
per ringraziarlo del dono della guarigione.
Egli rappresenta tutti coloro che, nella fede,
sanno riconoscere con gratitudine l’opera
di Dio compiuta per la loro salvezza.
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Sul limite La terza lettera pastorale del Vescovo Pompili Il limite della sventura e la porta del cielo
«C’è un limite a tutto», diciamo spesso.
Anche al dolore e alla sua sopportazione?
Vengono allora in mente le madri e i padri
che hanno perso un figlio o una figlia, e che
per questo si ritrovano in un deserto senza
nome. Un dolore che non ha stagioni né
consolazioni. Qui la porta tra il prima e il
dopo è una porta dell’inferno (…).
L’esperienza è durissima, ma anche rivelativa di un fatto che tendiamo a non cogliere: l’amore è sconfinato, passa oltre, trascende le assenze, si infila nelle pause della storia. E allora si scopre che la porta dell’inferno era preceduta da un’altra porta: quella che si attraversa quando si mette al mondo qualcuno, quando si ama qualcuno, quando si condivide una passione con altre persone. Non è certo una consolazione. Ma è forse una strada per comprendere che cosa significhi vivere sulla soglia anche quando tutto crolla. Quando il dolore va oltre un certo limite, si può parlare di sventura, dice Simone Weil. La sventura è la sofferenza che ti ha marchiato l’anima e che te l’ha resa schiava per sempre. Accade quando un avvenimento afferra una vita, la sradica e la colpisce in ogni sua dimensione. In quel momento, anche Dio sembra assente. Non si esce da questa situazione, se non continuando ad amare a vuoto, nel vuoto, attraverso il vuoto che si è aperto davanti ai nostri passi. Mi viene in mente una donna, di nome Giovanna, che nella notte del terremoto di Amatrice (24 agosto 2016) in una manciata di secondi ha perduto il padre, la madre, il figlio, la figlia, lo sposo (!). La sventura è il vero enigma della vita. Inutile cercare risposte o giustificazioni. Se ne troviamo, non sono certamente quelle vere. Semplicemente, non ci si riconosce più e si smette anche di combattere. Ci si sente maledetti e basta. Il mondo non ci può raggiungere in alcun modo. Quella vibrazione inudibile si offre con una frequenza che nessuno raccoglie. La disperazione si consuma in sé stessa e diventa angoscia. Di fronte a questo mutismo impenetrabile, occorre fermarsi: l’umano sperimenta tutta la propria impotenza. Ma c’è un’altra impotenza, più sottile e quotidiana. È l’amara esperienza di genitori, amici, pastori, terapeuti che si scontrano con una barriera invisibile quando cercano di aiutare qualcuno che, giorno dopo giorno, si chiude e si allontana. Si scopre allora che tutto il nostro amore, tutta la nostra dedizione e tutta la nostra competenza non bastano. Anche questa forma di limite può diventare maestra: ci ricorda che non siamo noi i “salvatori”. Il nostro compito è offrire presenza e custodire lo spazio dell’incontro, abitando una sospensione che non pretende di forzare i tempi e le condizioni delle biografie. In ogni caso, non dovremmo mai lasciarci annichilire dallo sconforto e dalla nostra impossibilità di alleviare il dolore – nostro e altrui – che ci getta ai piedi della croce. Se in quelle condizioni si resta ancora capaci di amare, nella vita ferita si forma una sorta di varco infinitamente piccolo ma estremamente prezioso: da quella fessura nella storia Dio riesce a passare e a raggiungere la sua creazione. Non è una benedizione del male, né il frutto di una cultura sadica o masochista (da cui a dire il vero non sempre il cristianesimo si è tenuto alla larga). È invece la buona notizia della salvezza. Su quella soglia non si resta fermi. C’è un tempo di entrata, fatto di silenzio, di preghiera, di sentimento. C’è un tempo di uscita, verso i fratelli e le sorelle, ma anche verso il creato intero. È così che possiamo diventare, a nostra volta, porte aperte per chi si troverà a bussare e a chiederci il permesso di entrare nel nostro spazio e nel nostro tempo di vita. Questo movimento di entrata e uscita è il ritmo stesso della vita spirituale matura: nessuna alienazione e nessun annullamento, solo il respiro profondo di chi ha imparato che ogni limite può diventare soglia, ogni ferita può aprirsi alla guarigione, ogni porta chiusa può rivelare un’altra porta aperta. La vita non finisce mai di insegnarci l’arte dell’attraversamento, l’arte di trasformare ogni confine in un luogo di incontro, ogni fine in un nuovo inizio. |
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